FESTE, TRADIZIONI, SUPERSTIZIONI E LEGGENDE

Chiesa S. Maria Assunta
 

Quello che maggiormente colpisce il forestiero che per la prima volta si reca a Frosolone è il considerevole numero delle chiese e delle tradizioni religiose del paese.

Nel solo centro abitato abbiamo ben sette chiese tra le quali spiccano la chiesa di S. Maria Assunta, unico monumento nazionale del paese, la cappella di S. Maria delle Grazie per un prezioso altare ligneo risalente al XIV secolo e la chiesa dei SS. Pietro e Paolo per il numero e la varietà dei riti che vi si celebrano e delle bellissime musiche sacre che tuttora vi vengono eseguite in occasione delle maggiori feste dell'anno liturgico, composte nella seconda metà dell'ottocento dall'insigne musicista e poeta frosolonese, il parroco Giuseppe Maria De Carlo e, più tardi, dal nipote il Rettore Giuseppe Maria Trillo che ne seguì le orme.
 

 
Chiesa S. Michele Arcangelo

 Chiesa S. Nicola

Altare ligneo (S. Maria delle Grazie)

Ma ogni piccolo gruppo di case, ogni frazione, ogni borgata ha la sua chiesa e in ognuna di essa vi viene celebrata ogni anno una festa.

A causa del clima piuttosto rigido, a Frosolone solo di rado si è svolta la tradizione processione del venerdì Santo, ma i riti della Settimana Santa venivano svolti nelle principali chiese e in particolare nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo dove, fino a qualche anno fa, veniva rievocata la Passione con canti e musiche composte dal De Carlo, intervallate da numerose prediche.

Una di queste opere, perché di vere e proprie opere si tratta, si intitola " La Desolata" e rievoca i sette dolori della Madonna, l'altra è intitolata "La Passione". Sempre nella stessa chiesa ogni due o tre anni si svolge il 29 di giugno la festa dei SS. Pietro e Paolo.

E' una festa molto sentita dai Frosolonesi, alla cui realizzazione contribuiscono con sostanziose offerte anche i numerosi Frosolonesi all'estero.

Durante la processione in cui sfilano per le strade del paese le statue dei due Santi e quella della Madonna Immacolata viene cantato, con l'accompagnamento della banda, un bellissimo inno "La Diva Immagine", sempre composto dal De Carlo, molto caro a tutti i Frosolonesi. Alla sera si svolge uno spettacolo musicale nella bellissima piazza di Largo Vittoria.

Feste analoghe si svolgono il 16 luglio nel quartiere di S.Angelo e il 15 agosto nel quartiere di S.Maria. Nella cappella di S.Rocco che è anche una congrega del "Terz'ordine Francescano" il primo e il due di agosto si celebra la festa del "Perdono": cioè viene concessa l'indulgenza plenaria, che può essere applicata anche dai defunti a tutti i visitatori della chiesa.

Più volte si entra nella chiesa e più indulgenze si possono lucrare, motivo per cui la gente entra e esce dalla chiesa per fare le cosiddette "passate". In occasione di questa festa confluiscono a Frosolone pellegrini di tutti i paesi vicini; nel passato si organizzavano in "compagnie" e venivano a piedi per trascorrere la notte in chiesa vegliando e pregando.

La sera del primo agosto i frosolonesi usavano consumare la cena all’aperto nei pressi della chiesa e il piatto d’obbligo era costituito dal baccalà e peperoni fritti.

Circa una cinquantina di anni fa due frosolonesi Eduardo Vago e Gennaro Mainella, composero un bellissimo canto sul primo di agosto, un canto che invita l’innamorata a dimenticare la recente lite e a scendere giù al paese per fare la festa e, soprattutto, per fare la pace; un verso della canzone dice : "Amore e perdone c’iavimma giurà".

Da allora la canzone è diventata il simbolo di questa festa e viene cantata da un gruppo di giovani su un carro che sfila sulle strade principali del paese. Negli ultimi anni, sempre in questa occasione, la "Pro Loco" ha organizzato un concorso di carri allegorici che rappresentano scene di vita quotidiana di Frosolone di un tempo. La manifestazione vede impegnati tutti i giovani del paese, ma anche i meno giovani, in una vera e propria ricerca delle tradizioni degli usi e dei costumi della Frosolone di ieri e costituisce un valido e significativo richiamo sia per i Frosolonesi, sia per gli abitanti dei paesi vicini.

Accanto alle feste religiose, troviamo molte altre feste legate al mondo contadino. Il raccolto è sempre un momento di gioia da dividere con amici e parenti: la vendemmia, la mietitura, la raccolta del granoturco veniva e viene tuttora accompagnata da balli, canti, cene in famiglia e tra amici. La prima di queste feste cade il 17 gennaio, festa di Sant'Antonio Abate, protettore degli animali.

È particolarmente sentita nelle borgate dove risiedono la maggior parte degli allevatori e, in special modo nella borgata di Acquevive.

In mattinata vengono condotti, davanti al sagrato della chiesa, per ricevere la benedizione, cavalli, muli, asini, pecore, agnelli infiocchettati e adornati per l'occasione con nastri variopinti. In molte case si cucina "la lessata": granturco bollito con la sola aggiunta del sale che poi viene offerta, "per devozione" a tutti gli ospiti della giornata.

Ma la festa vera e propria si svolge la sera della vigilia. Gruppi di giovani, negli ultimi anni si sono aggiunte anche le donne, si recano di casa in casa per cantare la canzone di Sant’ Antonio.

Sfidano i rigori del clima e spesso vere e proprie tempeste di neve per raggiungere anche le case più isolate e con canti e suoni augurano a ogni componente della famiglia felicità, fortuna e prosperità.

In cambio ricevono "pieghe" di salsiccia, salami "gnoglie" (pezzi di budelloni di maiale conditi con sale, limone, peperoncino, bucce di arancia e poi essiccati) l’immancabile bevuta di vino novello e spesso anche "la lessata" nonostante che un verso della canzone dica espressamente "tutto m’arravoglie, ma la lessata ne la voglie".

Piazzetta di S. Pietro in Valle (fraz. di Frosolone)

 

Un’antica e simpatica consuetudine, scomparsa da soli pochi anni, era in uso nella frazione di San Pietro in Valle. Si trattava di una sorta di autotassazione per contribuire ai bisogni della chiesa. Alla fiera del 13 giugno alcune persone addette alla cura e al mantenimento della chiesa acquistavano un maialino "lu puorc de Sant’Antuono" e lo lasciavano libero per le strade dell’abitato.

Il maialino, naturalmente, andava in cerca di cibo e, istintivamente, si avvicinava alle stalle dove erano allevati altri maiali e qui veniva nutrito, la sera veniva alloggiato nella stalla più vicina al posto in cui si trovava. Il giorno di Sant’Antonio Abate veniva ammazzato e tutti i Sampietrini ne acquistavano un pezzo di carne.

Parte del ricavato era destinato all’acquisto del nuovo maialino, il resto era devoluto per le esigenze e le necessità della chiesa.

Anche l’uccisione del maiale, che segue ancora riti millenari, rappresenta un momento di festa.

Innanzitutto si sceglie con cura il giorno per l’ uccisione. Deve ricadere in un giorno di luna calante, cioè di mancanza, e non deve coincidere con il giorno della settimana in cui cade la festa di San Sebastiano, in modo tale che, se la festa, che cade il 20 gennaio, ricorre per esempio quest’anno di martedì, tutti i martedì dell’anno sono ritenuti infausti per l’inizio di qualsiasi attività nuova (soprattutto i lavori dei campi e l’uccisione del maiale).

L’origine di questa superstizione si perde nella notte dei tempi ed è legata alla morte del Santo che, secondo la storiografia religiosa è avvenuta a Roma, sotto Diocleziano alla fine del terzo secolo.

La leggenda invece vuole che il Santo fu condannato a morte mediante il supplizio delle frecce: condotto in un campo fu legato ignudo a un palo e colpito da tante frecce da sembrare quasi un riccio, ma il Santo scampò miracolosamente alla morte perché le frecce, nel momento in cui toccavano il corpo, diventarono cenere.

Sempre secondo la leggenda, tutto quello che viene toccato, nel momento della giornata in cui è avvenuto il martirio del Santo, va a male. Alcuni anziani contadini raccontano di aver assistito, essi stessi a scene miracolistiche.

In particolare si racconta di un' anziana donna di San Pietro in Valle, che essendo in grado di stabilire l' ora esatta in cui era avvenuto il martirio, orario che cambia di anno in anno, per effetto della rotazione terrestre, lanciava in aria un sarmento che ricadeva sul terreno sotto forma di cenere.

Al di là della indimostrabilità di questi eventi resta il fatto che, ancora oggi, nessuno ammazza il maiale o inizia lavori campestri nel giorno di San Sebastiano.

Altra condizione essenziale per stabilire il giorno in cui uccidere il maiale è, naturalmente, la temperatura che deve essere rigidissima, altrimenti la carne non gela e va a male. Nel momento dell'uccisione, una donna raccoglie in una conca di rame il sangue e contemporaneamente lo gira con un mestolo di legno per non farlo rapprendere. Questo sangue, lessato e condito con sale, noci e uva passa viene messo in pezzi di budella di maiale e ne vengono ricavati i gustosissimi sanguinacci che, una volta essiccati, vengono tagliati a fette e soffritti con la cipolla.

L' uccisione avviene sempre davanti casa e questo non solo nelle campagne, ma anche nei vicoli del centro, per cui capita il sovente, durante l' inverno, di essere svegliati al mattino dagli urli strazianti del povero maiale che oppone una patetica quanto inutile resistenza, al suo sacrificio. Poi l' aria si riempie dell' odore acre del sangue. Per quanto cruenta, alla scena assistono spesso gruppi di bambini incuriositi, e, come in un antico rito sacrificale, la morte della vittima viene salutata con gridi di gioia. Subito dopo la povera bestia viene distesa su una grata sotto la quale viene acceso uno scoppiettante fuoco di ginestra per bruciare le setole. Dopo con l' aiuto di acqua bollente e di un affilatissimo "rasoio" il maiale viene accuratamente rasato dei "peli superflui".

Terminata questa minuziosa operazione di pulizia, viene portato all' interno della casa e appeso al soffitto in un locale fresco e ventilato. Quindi viene squartato e liberato delle interiora.

Alle donne spetta l' ingrato compito di svuotare le budella, lavarle accuratamente con acqua e sale e poi conservarle in acqua e limone o aceto bianco per liberarle dal caratteristico odore.

Queste serviranno poi, dopo qualche giorno, per confezionare salsicce e salami. A questo punto il lavoro del primo giorno è finito, non resta altro che preparare una magnifica polenta da condire con pezzi di carne soffritta e peperoni all’aceto. Intanto il maiale rimane appeso un paio di giorni per far asciugare e gelare la carne.

Anche per la scelta del giorno destinato alla "rifilatura" vengono seguite tutte le regole già citate.

Con l’abilità da chirurgo si tagliano i vari pezzi di carne. I prosciutti, "le ventresche", i pezzi di lardo vengono messi sotto sale, mentre la carne viene tritata (qualcuno le fa ancora a mano con affilatissimi coltelli che a Frosolone certamente non mancano; ma quasi tutti ormai preferiscono il più pratico tritacarne), quindi salata, pepata e infilata nelle budella.

I pezzi migliori e meno grassi vengono utilizzati per i salami. A Frosolone la salsiccia viene condita esclusivamente con sale e pepe, non vengono assolutamente usati altri aromi, solo nella salsiccia di fegato viene messo il peperoncino, l’aglio e raramente bucce di arance spezzettate e semi di finocchio selvatico. I pezzi di salsiccia vengono poi legati l’uno all’altro a formare una lunga catena che viene avvolta intorno a una pertica e poi messa a "seccare" in cucina o, comunque, in un locale aerato dove c’è camino.

Il vento, il fumo e l’aria gelida faranno essiccare le salsicce e le soppressate in circa venti, venticinque giorni. Dopo di che si sceglie un altro giorno propizio per fare "l’unto". La salsiccia si taglia a pezzi lunghi un dito e si conserva nelle vesciche o in vasi di creta con il grasso che precedentemente si è fatto sciogliere.

La superstizione vuole anche che la donna mestruata non debba assolutamente partecipare a nessuno dei lavori descritti, perché tutto andrebbe irrimediabilmente a male e, sempre a proposito di superstizione, per evitare il "malocchio", qualsiasi persona che entri in casa mentre si stanno svolgendo questi lavori deve dire ad alta voce "Sant Martine" e i lavoratori devono rispondere "benvenuto".

Anche questa superstizione è legata alla morte del Santo (San Martino). Secondo la leggenda, per la verità molto fantasiosa, il povero Santo in questione aveva in moglie una donna di facili costumi che approfittava delle assenze del marito per ospitare, in casa, di notte, altri uomini. Una sera d’inverno il Santo che si trovava in viaggio per far ritorno a casa, fu colto da una terribile bufera di neve per cui arrivò a casa sua a notte inoltrata. La sua bontà e il suo amore per il prossimo gli suggerirono di non svegliare nel cuore della notte la moglie per non arrecarle eccessivo disturbo. Ma questo suo atto di carità gli costò caro: la mattina seguente fu rinvenuto dalla moglie e dall’amante di costei, privo di vita davanti alla soglia di casa: il freddo e la stanchezza lo avevano ucciso. I due, per evitare lo scandalo, pensarono di occultare il cadavere, nascondendolo in cantina dietro una botte di vino.

Ma il Santo che se era tale in vita, maggiormente lo diventò da morto, per beneficare ulteriormente la moglie, per quanto vino si spillasse da quella botte, la faceva trovare sempre piena. Questo fatto gli valse il titolo di Santo dell’abbondanza ed è per questo motivo che lo si invoca quando in casa si preparano provviste o conserve di ogni genere.

E, per tornare al nostro maiale, bisogna aggiungere che fino a qualche decennio fa, esso rappresentava una vera e propria ricchezza ed è per questo che si usavano tanti accorgimenti e si metteva tanta cura nella sua "lavorazione".

Frosolone, come si sa, è posto a circa 1.000 metri di altitudine e i rigori del clima non permettono la coltura dell’ ulivo (ve ne sono pochissime piante a valle) e il grasso di maiale ha rappresentato in passato l’unico condimento, per cui si conserva con cura e si usava con molta parsimonia per farlo durare fino all’uccisione di un altro maiale.

La salsiccia era considerata un companatico per i soli giorni di festa, le cotiche e i cotechini venivano usati per insaporire e condire i fagioli anch’essi considerati un piatto di lusso.

La cucina tipica frosolonese è piuttosto povera. I piatti principali in passato sono stati la polenta e la pizza di farina di granone cotta sotto al coppa sulla "liscia".

La sua preparazione è molto semplice e richiede pochissimi ingredienti. Si impasta la farina con acqua e sale (senza l’aggiunta del lievito) e raramente con i " cicori " di maiale e si rovescia su una pietra del focolare (liscia) appena liberata dal fuoco e dalla cenere, si ricopre con una coppa di ferro a sua volta ricoperta di cenere e di brace. Cuoce in pochissimo tempo ed è molto friabile, si rompe a pezzi senza l’ausilio del coltello e si mangia da sola o accompagnata da verdure o zuppa di fagioli. Ha rappresentato, per secoli, la colazione, il pranzo e la cena di generazioni di Frosolonesi.

La polenta rappresenta un altro piatto forte della cucina locale e, a differenza dei paesi limitrofi, viene preparata con l’aggiunta delle patate.

Le patate sbucciate e tagliate a pezzi piccoli vengono cotte in un "caldaio" di rame con acqua e sale fino a quando diventano una fine poltiglia, dopodiché vi si aggiunge, a manciate, la farina e si gira continuamente con mestolo di legno. L’ abilità consiste nel non far formare grumi. Una volta pronta (la cottura richiede circa un’ ora) viene condita a strati in un grosso piatto.

I condimenti sono vari e a seconda delle stagioni, viene condita con peperoni, pomodori e cipolle, oppure pezzi di salsiccia fritti e formaggio pecorino, o baccalà fritto con le cipolle, o anche con il fegato di agnello ma anche più semplicemente con verdure o fagioli.

Un altro condimento, oggi quasi completamente in disuso, era rappresentato dal "mosto cotto". Al momento della vendemmia, appena pronto, il mosto veniva fatto bollire lungamente fino a ridursi di volume di circa quattro quinti. Poi, una volta raffreddato, veniva conservato in bottiglie di vetro scuro o anche nelle "rengelle", grosse anfore di creta con due manici. Si usava per condire la polenta, ma anche per la preparazione dei "chiazz ammaliat", una tipica ricetta frosolonese del tutto scomparsa sulle tavole moderne.

Questi si preparavano come le normali lasagne, ma si tagliavano a pezzi larghi circa quattro centimetri e spessi circa un centimetro e mezzo, e poi si facevano cuocere direttamente in questo "mosto cotto" , assumendo quindi una colorazione rosata e un sapore dolciastro.

"Lo scattone" è una specie di antipasto che si usa specialmente d’ inverno per "scaldarsi". Si cuociono gli spaghetti o meglio la pasta alla chitarra fatta in casa, poi si versano in una tazza con molta acqua di cottura e vi si aggiunge vino a piacere e un cucchiaio di zucchero o un pizzico di pepe a seconda dei gusti. Si consuma mentre è ancora bollente.

Il "panunto" si prepara nel periodo dell’ uccisione del maiale. Si fa sciogliere in una grossa padella di ferro (la "fressora") il grasso fresco del maiale. Dopo vi si adagiano sottili fette di pane raffermo fino a quando hanno ben assorbito tutto "l’unto", quindi si aggiunge il peperoncino; si mangia caldissimo.

Un antico proverbio recita: "d’estate secca preta ca d’ viern è cupeta" - d’estate conserva anche la pietra che d’inverno ti sembrerà copeta (dolce croccante fatto con miele o zucchero e mandorle).

E infatti d’estate si cercava di conservare tutto quanto era possibile per il lungo rigido inverno. Sempre nelle "rengelle" si conservavano pere mature sotto l’aceto oppure sotto la cenere e, ancora oggi, peperoni sotto aceto che si consumano d’inverno con la carne fresca del maiale. Subito dopo la festa di San Rocco che cade il 16 di agosto, iniziava la preparazione della conserva di pomodoro. I pomodori spezzettati venivano passati al setaccio. La purea così ottenuta veniva stesa su tavole di legno e fatta seccare al sole, fino a quando si asciugava tutta l’acqua.

Le donne, con un piccolo mestolo, la rigiravano continuamente per favorirne l’essiccazione e, nello stesso tempo, cercavano di scansare le mosche che a sciami si andavano a depositare sulla povera salsa. Quest’operazione richiedeva alcuni giorni.

Alla fine il concentrato di pomodoro veniva conservato in tegami di creta e, per proteggerlo dalla muffa, veniva ricoperto con un sottile strato di olio. Quando si usava, veniva sciolto con qualche bicchiere di acqua calda.

Il companatico tipico dei pastori era la "mscischia". Le pecore e i montoni che si azzoppavano venivano cotti nel forno e arrostiti a lungo fino a che la carne diventava scura o quasi secca. In questo modo si conservava a lungo. Per mangiarla poi occorreva, oltre a un buon appetito che, certamente non mancava mai, anche un’ottima dentatura.

Pochissimi e assai poveri sono i dolci tipici di Frosolone, il più conosciuto è senz’altro il bucellato, dolce pasquale, simile a una grossa ciambella col buco. Si tratta di un semplice pane dolce e anche la sua preparazione ricalca quella del pane.

Fino a pochi anni fa in tutte le case del paese e specialmente nelle famiglie artigiane, durante la settimana Santa, si impastavano decine di uova con zucchero, farina, patate, cannella, lievito e grasso di maiale, e poi, in mancanza del forno casalingo, si portavano a cuocere, su grosse tavole, le "meselle", al forno pubblico. Il sabato Santo tutto il paese era letteralmente inondato dal profumo fragrante dei bucellati.

Un altro dolce tipico, che si prepara in occasione di grosse feste, tipo matrimoni, battesimo ecc…, è il "biscotto cotto all’acqua". E’ simile a un grosso tarallo di sapore appena dolciastro, che si mangia intinto in un fresco vinello.

Abbiamo più volte parlato di superstizioni eppure il popolo frosolonese è sempre stato molto religioso; spesso in alcuni atteggiamenti è difficile distinguere dove finisce la vera fede e inizia la superstizione. Queste due vanno spesso a braccetto e si intrecciano e si separano continuamente come due ballerini in un’antica danza campestre.

Tutta la vita dell' uomo, dalla nascita fino alla morte, e ogni sua attività, soprattutto quella agricola, è accompagnata da vizi propiziatori, quasi magici che hanno il potere d' invocare le forze del Bene e allontanare quelle malefiche.

Se un bambino piccolo è malaticcio, mangia poco, cresce male è stato sicuramente colpito dal malocchio o, peggio ancora viene preso dalle streghe. E allora si ricorre al "magaro" alla fattucchiera e fino a qualche decennio fa, addirittura al parroco del paese il quale confezionava lu "vrev", un piccolo sacchetto di forma quadrata contenente una piccola immagine della Madonna del Carmine, alcuni acini di sale in numero dispari e un pezzetto di carta con su scritta un' indecifrabile formula magica. Il sacchetto veniva cucito sulla maglietta intima del bambino e, a questo punto, nessuna strega poteva più toccarlo. Un altro rimedio consisteva nell' ungersi con un unguento ricavato dall' erba "belladonna".

Il capitolo delle streghe è vasto e vario. Bastava essere vecchia, brutta informe e, immancabilmente, si era tracciati di stregoneria. La credenza vuole che la strega non riusciva a morire se non lasciava lu "cuocc" a un' altra persona, in altri termini se non riusciva a lasciare a qualcun altro la sua triste eredità e allora agonizzava per giorni e giorni fin quando riusciva a dare la mano a qualche malcapitato che a sua volta diventava strega o stregone.

Molti erano i rimedi per tenerle lontane, soprattutto la notte quando prese le sembianze di un animale, preferibilmente di un gatto, riuscivano ad entrare nelle case per "stregare" soprattutto i bambini.

Ma neanche gli animali riuscivano a farla franca, esse si accanivano soprattutto con i cavalli e i muli, divertendosi a intrecciare fittamente la loro criniera e la coda.

Sono ancora in molti a giurare di aver trovato, la mattina, nella stalla, il cavallo madido di sudore con la criniera e la coda intrecciate in fittissime e regolarissime treccioline.

Per evitare che la strega entrasse nelle case o nelle stalle, si lasciava dietro l' uscio una scopa di miglio. Prima di entrare la strega era costretta a contare tutti mi fili della scopa e, in questo modo, passava tutta la notte e, come si sa, all' alba le streghe sono costrette a dileguarsi.

Anche una grossa manciata di sale otteneva lo stesso effetto; anzi, pare che le streghe fossero proprio "allergiche" al sale e per riconoscerle durante il giorno, bastava offrire loro qualche chilo di farina nella quale era stato mescolato un grosso pugno di sale. La strega se ne sarebbe accorta subito e avrebbe rifiutato la farina. Se una persona veniva sospettata di stregoneria e si voleva smascherarla era sufficiente infilare sotto la sedia sulla quale era seduta un treppiede rovesciato.

In questo modo la strega non avrebbe più potuto alzarsi fino a quando non veniva tolto il treppiede. Il malocchio poi colpisce tutti, uomini, animali e cose e a farlo possono essere tutti ma soprattutto le persone che hanno le sopracciglia unite ma è involontario, cioè nessuno lo può fare di proposito.

Se uno guarda con ammirazione una persona, un animale una pianta e non dice "Dio lo benedica" sicuramente gli butta addosso il malocchio e allora, per evitare spiacevolissime conseguenze, a volte addirittura la morte, bisogna "rincantare" il malocchio.

Si deve recitare a mente, una formula magica, che si può imparare da una persona che la conosce, ma solo durante la notte di Natale e segnare le persone o l'animale con varie croci e versare in alcuni piatti pieni d 'acqua alcune gocce d 'olio. Se l 'olio si dilegua il malocchio è tolto.

Tra i vari tipi di malocchio, il peggiore è quello "ferrato" e capita quando la persona che butta il malocchio ha qualche oggetto di ferro in mano, per esempio una chiave o un attrezzo di ferro, in questo caso toglierlo è molto più difficile e bisogna mettere nel piatto dell' acqua anche un pezzo di ferro. Esistono comunque diversi antidoti per non essere colpiti dal malocchio: il corno di corallo, una piccola manina d’oro con le dita chiuse a forma di corna, o anche indossare delle calze spaiate oppure indossarne una al dritto e una al rovescio.

Quest’ultima soluzione era la preferita dalle spose nel giorno del loro matrimonio. Oltre al malocchio si possono "rincantare" anche vari mali fisici: il mal di pancia, "la verminaria", la sciatica, la "rsibila" (infiammazione dei muscoli facciali), i porri, le verruche ecc…

Per ognuno di questi mali si recita una apposita formula e si seguono vari riti. Per la "rsibila" bisogna segnare sul viso del malato delle piccole croci con una moneta d’argento (preferibilmente l’antica tredicigrani) partendo dall’ alto verso il basso e recitare per tre volte la seguente formula: "Rsibila malament/ che cosa vai facendo?/ vaj facenn ossa de cristian/ p’falle arrajià come li chian".

Per la "verminara" che, come si sa, colpisce soprattutto i bambini, bisognava versare tre gocce d’olio in un piatto pieno d’acqua e recitare per tre volte la formula: "Sant Dminch dalle aiuto/ da quel sangue che tu tramuti/ lo tramuti con una lanza/ Sant Dminch fatt qui avanti/ tutt le vierm nterra viann".

La formula per allontanare il mal di pancia, sempre secondo la leggenda, fu recitata per la prima volta, niente di meno che dalla Madonna quando, insieme con San Giuseppe a Betlemme dopo aver cercato invano, un ricovero per la notte, fu costretta a ripararsi in una stalla. Un’ostessa che l’aveva malamente cacciata fu colpita da un violento mal di pancia. Maria si mosse a compassione e per guarirla recitò la seguente formula che poi si è sempre usata per "rincantare"il mal di pancia: "Paglia assutta e mbossa/ e saramiente a cape/ le male de chesta femmena(o uomo)/se ne va a mare/, se ne va a mare".

La formula va recitata tre volte e vanno segnate delle croci sulla pancia.

Per allontanare l’invidia è necessario un pentolino di rame pieno d’acqua nel quale si deve versare una sola goccia d’olio, la persona colpita da invidia deve essere segnata con 9 croci e il rincantatore deve recitare una sola volta questo scongiuro: "ammidia maledetta/ che abbiai come un cane/ vattene da domani/ squagliati come il sale".

Essere colpiti dall’invidia era considerato veramente nefasto tanto che un antico proverbio recita: la astema non ti coglie e l’ammidia sci" (la maledizione non ti colpisce e l’invidia si).

Oltre al malocchio si poteva essere colpiti da "fatture" che spesso si rivelavano mortali. A farle erano soprattutto donne tradite, fidanzate abbandonate, amanti gelosi. In questo caso si doveva ricorrere tempestivamente ad un "magaro".

Fino a qualche decennio fa erano in molti a recarsi a Pietracupa (un comune vicino Frosolone) per farsi "rincantare le "fatture" da un bravo "magaro" del posto. Si racconta che spesso si arrivava troppo tardi, quando ormai la morte era inevitabile, allora il "magaro" si limitava a far conoscere al parente del malcapitato l’identità degli autori della fattura.

Versava dell’acqua in un cantino e, dopo aver recitato una formula, appariva nell’acqua, ben visibile, come in un moderno teleschermo, il viso della persona autrice della fattura.

La fattura, oltre che per punire una persona, si poteva fare anche per acquistarne i favori. E allora si facevano fatture per accalappiarsi l’amore di una donna o di un giovane reticente. E così si spiegavano i matrimoni tra belle ragazze e uomini brutti e vecchi e viceversa.

Alcune fatture che prendevano il nome di "legature" venivano fatte per colpire la sessualità dei giovani. Si racconta di numerosissime coppie che, nonostante fossero regolarmente sposate, non riuscivano, a volte anche per mesi, ad avere rapporti sessuali, perché era stato loro "legato" il sangue. Anche in questo caso l’intervento di un "magaro" poteva sanare la situazione.

Soprattutto nel mondo contadino è ancora molto radicata e osservata una credenza secondo la quale una persona che brucia "lu iuv" (il giogo che si mette alla coppia di buoi o di cavalli quando devono trascinare l’aratro) sconterà questo suo peccato in punto di morte agonizzando a lungo.

Ma anche in questo caso esiste il rimedio. Bisogna modellare al calore di una fiamma una candela della candelora fino a farle assumere la forma giogo. Poi accenderla alle due estremità. Quando le due fiammelle si incontreranno e la candela sarà consumata, il povero agonizzante potrà finalmente spirare in pace.

Abbiamo già parlato di superstizioni e credenze legate alle ricorrenze religiose. Un giorno in cui si effettuano vari riti è il 25 di gennaio, giorno in cui la chiesa ricorda la conversione di San Paolo. In questo giorno i contadini si recano nelle vigne per segnarle con la "croce", un rito propiziatorio per scongiurare le gelate tanto dannose per le vigne.

Per fare la croce alla vigilia essi potano quattro viti disposte a forma di croce. In questo giorno poi, nessuno esce di casa prima dell’alba perché la tradizione vuole che se uno, uscendo di casa prima dell’alba incontra una donna, per tutto l’anno in campagna si imbatterà nei serpenti, se invece incontra un uomo sarà costretto ad imbattersi nei rospi.

Sempre la stessa credenza vuole che il giorno delle "comparse di San Paolo" i serpenti, che in questo periodo sono in letargo si svegliano e cambiano posizione, in altre parole "si rigirano i serpenti".

L’otto maggio, festa di San Michele, Frosolone si accendono enormi fuochi sia nelle piazze del paese che nelle campagne e poi si ci intrattiene intorno ad essi fino a notte inoltrata con danze varie. Pare che l’origine di questa tradizione vada ricercata nel fatto che, nei primi giorni di maggio di sovente si verificano terribili gelate dannosissime per la vigna che, in questo periodo, è già in germoglio. Molto anticamente si cercava di proteggere la vigna da queste gelate accendendo lungo il suo perimetro vari fuochi. 

Poi, col passare del tempo, da un fatto puramente pratico i fuochi hanno assunto anche un significato propiziatorio e l’usanza di accenderli si è diffuso anche nel centro abitato ma limitatamente al giorno in cui si festeggia San Michele Arcangelo che, come si sa, col fuoco ha avuto a che fare quando ha contribuito alla cacciata degli angeli ribelli dal Paradiso, per relegarli all’inferno.

Altre tradizioni e credenze sono legate alla festa dei Morti. Sempre secondo la leggenda durante la notte tra il primo e il due di novembre i morti percorrono in processione tutte le strade del paese e poi ognuno di essi si reca in visita alla casa che è stata la sua abitazione dal vivo. Per questo motivo si lascia in casa un lume acceso e molti decenni fa, addirittura si lasciava la tavola apparecchiata e un catino pieno d’acqua con asciugamano pulito.

Naturalmente questi morti sono invisibili, ma , se si segue un rito particolare, essi si materializzano. Innanzitutto bisogna formare un cero con il cerume delle proprie orecchie. La sua preparazione deve iniziare esattamente il due novembre e, per tutto l’anno, ogni giorno si deve mettere ad un lucignolo questo cerume. La notte dei morti dell’anno successivo si accende il cero dietro la finestra chiusa e si deve guardare attraverso un setaccio. Apparirà così una interminabile processione di anime, tutte vestite di bianco e con una candela in mano. Apriranno la processione i bambini piccoli e poi, via via , in ordine di età tutti gli altri. Alla fine del corteo, vi saranno tutti i morti di morte violenta che porteranno sul proprio corpo, ancora ben vestiti, i segni delle ferite e delle violenze subite.

I vecchi raccontano che anticamente erano in molti a seguire questi riti, ma tutti hanno pagato questo loro ardire con la pazzia, tanto risultava shockante e traumatizzante una visione del genere.

Fino a qualche decennio fa, nella borgata di Collecarrise, nella notte dei morti, un gruppo di uomini si recava di casa in casa per cantare la "canzone dei morti" ma, a differenza della festa di S. Antonio Abate, non venivano ricevuti in casa. Essi si limitavano a cantare la canzone all’esterno e poi prendevano una "pelliccella di grano" (setaccio pieno di grano) che, precedentemente, i padroni avevano lasciato sulla soglia. Con il ricavato della vendita di questo grano il giorno successivo si faceva celebrare una messa di suffragio per tutti i defunti.

Anche sulla notte di Natale aleggiano antiche credenze e varie superstizioni. Innanzitutto un’antica leggenda vuole che chi nasce in questa notte diventerà sicuramente un lupo mannaro. Solo in questa notte, poi, si possono imparare le varie formule e gli scongiuri per "rincantare il malocchio" e le varie malattie di cui abbiamo già parlato. Infine un’antichissima quanto fantasiosa credenza vuole che tutte le streghe del paese si rechino alla messa di mezzanotte, ma per riconoscerle e bloccarle in chiesa è sufficiente mettersi in piedi in fondo alla chiesa, dove generalmente è posto l’organo, e vestirsi nel modo che segue. Bisogna indossare un gilet di pelle di pecora (meglio se di capra - quelli che anticamente venivano indossati dai pastori) , infilare alle dita della mano sinistra le canne salvadito che i contadini usavano durante la mietitura per proteggersi appunto le dita, e impugnare, con la mano destra, la falce. In questo modo, le streghe presenti in chiesa, per uscire dal luogo sacro devono chiedere il permesso al tizio così vestito.

Nella società frosolonese, come del resto in tutte le società contadine, l’avvenimento più importante nella vita di una persona era senz’altro il matrimonio.

Il matrimonio "combinato" era raro e, se avveniva, generalmente era tra famiglie benestanti che dovevano conservare, o aumentare, il loro patrimonio.

I giovani contadini o artigiani, invece, si "sceglievano" la fidanzata e le occasioni migliori erano quelle dei balli che si organizzavano nelle varie case soprattutto quando si "specciuluava" cioè quando si sfogliava il granoturco. In queste occasioni si organizzavano anche vari giochi tra i quali "gira la ciavotta" (gira la ciabatta) al quale potevano partecipare o solo donne o solo uomini. Ci si sedeva per terra in cerchio con le gambe stese e ricoperte dalle "sboglie" (le foglie del granoturco) e si faceva girare sotto le gambe una "ciavotta" (ciabatta). La persona al centro del cerchio doveva indovinare il punto in cui si era fermata la "ciavotta", se sbagliava doveva pagare vari pegni. Chi si faceva scoprire doveva prendere il posto il posto di centro. 

Un altro luogo di incontro era la fontana pubblica e, in modo particolare la "font ross" ("font" fontana - "ross" grande). 

Le ragazze vi si recavano con la tina per attingere l’acqua e i ragazzi l’attendevano per poterle ammirare e scambiare qualche parola di saluto.

 

(Nella foto la Font ross o Fontana dell'Immacolata).

Anche la messa della domenica "la messa ranr" era considerata dalla gioventù un’ottima occasione per ammirare ed essere ammirati. Sicuramente i due giovani innamorati si scambiavano parole e sguardi di intesa ma la dichiarazione vera e propria il ragazzo la doveva fare al padre della ragazza il quale non dava mai una risposta immediata, ma invitava il giovane a tornare dopo qualche giorno. Se la risposta era affermativa i due giovani erano già ufficialmente fidanzati.

Durante il periodo del fidanzamento i giovani si incontravano la sera, a csa di lei, preferibilmente il giovedì e il sabato; se invece la fidanzata era vedova, il giorno stabilito per gli incontri, era il lunedì, ma sempre alla presenza dei genitori e, nella migliore delle ipotesi, di qualche nonna o fratello più piccolo e allora si approfittava di un eventuale colpo di sonno dei "guardiani" per scambiarsi qualche effusione amorosa.

Le occasioni per incontrarsi un po’ più intimamente erano rappresentate dai balli, dalle feste paesane e a volte anche dai pellegrinaggi nei Santuari vicini.

Durante tutto il periodo del fidanzamento, alla sposa non era assolutamente permesso frequentare la casa di lui. Quando si approssimava la data delle nozze, la madre dello sposo si recava a casa della ragazza per fare la "parentezza" e in quell’occasione le portava un dono la cui entità dipendeva dalle finanze della famiglia, ma, generalmente, ci si limitava ad uno scialle o ad un piccolo oggetto d’oro. La domenica delle Palme, il fidanzato doveva portare alla fidanzata la "palma" che consisteva in una specie di fiore fatto con i confetti ed adornato di nastri bianchi assieme ad un piccolo regalo d’oro. Una volta stabilita la data del matrimonio cominciavano i preparativi veri e propri. Ovviamente anche per la scelta della data delle nozze bisognava assolutamente evitare tutti i giorni ritenuti infausti. In particolare, oltre ai classici tredici e diciassette si evitava il giorno undici e ventidue e poi il venerdì e martedì ed anche in questo caso esiste il proverbio ad hoc: "di Venere e di Marte né si sposa ,né si parte né si da principio all’arte". Ma anche tutto il mese di maggio non era considerato propizio per il matrimonio oltre a, naturalmente , i periodi in cui la stessa chiesa vieta di celebrare le nozze e cioè l’avvento e la quaresima.

Una grande attenzione era riservata alla preparazione del corredo che, comunque , iniziava fin da quando la ragazza era piccola. Infatti un antico proverbio recita : "figlia in fasce, dodda in casce" (figlia in fasce dote nella cassa). Una volta pronto, e questo poco prima del matrimonio, con l’aiuto delle amiche e dei parenti della sposa il corredo si lavava, si stirava e si metteva esposto e, alla presenza dello sposo e della suocera, si faceva valutare da persona esperta che stilava un inventario dettagliato di tutti i capi che lo componevano. Una copia veniva consegnata alla suocera e un’altra la conservava il padre di lei.

Il corredo infatti veniva considerato come un acconto sull’eredità spettante alla ragazza. Poco prima del matrimonio si provvedeva all’acquisto dei mobili che, generalmente, si limitavano al letto, ai comodini, alla cassa o al comò con lo specchio. La spesa per l’acquisto del comò spettava alla sposa, mentre la spesa per il letto e lo specchio era divisa a metà tra i due sposi. Il giorno in cui si doveva portare il corredo a casa dello sposo, si organizzava una festa a casa di lei e poi si caricavano su cavalli e muli, adornati ed infiocchettati per l’occasione, tutta una serie di canestri contenenti il corredo.

Il corteo doveva seguire un ordine ben preciso. Sul primo mulo venivano caricati i materassi e le coperte, poi seguivano i cavalli carichi di tine, conche ed altri oggetti di rame che la sposa aveva ricevuto come regalo di nozze dai parenti e dagli amici e poi le parenti e le amiche della sposa che recavano in testa i cesti con i cuscini, le lenzuola, le camicie, chiudeva il corteo la mamma della sposa che recava in testa un cesto con le calze. Durante il tragitto venivano sparati colpi di fucile in modo che i cavalli si impaurivano e scalpitavano facendo tintinnare gli oggetti di rame creando, naturalmente, un clima di allegria ed entusiasmo.

Neanche in questa occasione era permesso alla ragazza di recarsi nella casa che l 'avrebbe accolta da sposa. Giunti a destinazione, veniva sistemato il corredo nel comò e veniva preparato il letto.

Intanto la suocera aveva già fatto trovare sulle reti i "sacconi con le sboglie" una specie di materasso riempito con le foglie di granturco sui quali si adagiavano i materassi di lana, poi si continuava la preparazione del letto con la coperta e il lenzuolo più importante del corredo che prendeva appunto il nome di "primo letto".

Finalmente arrivava il giorno del matrimonio ma sia alla cerimonia in chiesa che al pranzo, che si svolgeva alla casa dello sposo, non era ammessa la presenza della mamma della sposa che rimaneva in casa propria. Il numero e la varietà delle portate del pranzo dipendevano, naturalmente dalle disponibilità finanziarie.

Il piatto forte era costituito dalla scarola in brodo con le cotiche e l'osso di prosciutto. Poi generalmente veniva servito uno spezzatino di fegato con le uova, le "sagne" con le uova al sugo di pomodoro (negli ultimi anni sono state sostituite dai maccheroni) , galline ripiene e l'immancabile agnello arrosto, il tutto accompagnato con abbondante vino locale, che, a dire il vero, è sempre un po’ aspretto.

Finita la festa e salutati tutti gli invitati i due sposi andavano a letto, ma spesso erano vittime degli scherzi degli amici. Di sovente capitava loro di trovare il letto pieno di zucchero o un campanello appeso alle reti che suonava al minimo movimento. Il mattino seguente alla suocera spettava il compito di rifare il letto. Gli sposi rimanevano in casa e quando si recavano a messa venivano accompagnati dai genitori e dai cognati. A questo punto erano finiti "gli otto giorni della zita". Il giorno successivo si riprendevano le attività lavorative e la donna accompagnava il marito nel lavoro nei campi o nelle botteghe artigiane.

Meno fortunate delle altre si consideravano le mogli degli allevatori o meglio di quelli che svolgevano il lavoro di "vaccaro" e " pecoraro". Un antichissimo proverbio recita: "Chi ama lu pecurar non ama nulla, tre misce alla mentagna e nove in Puglia" (chi ama il pecoraio non ama nulla, tre mesi in montagna e nove in Puglia).

I pecorai e i vaccari, infatti, percorrendo a piedi i millenari tratturi. Ai primi freddi accompagnavano le mandrie e i greggi nelle Puglie, soprattutto nella terra di Foggia, per far ritorno in montagna solo verso al fine di maggio. Il loro era un lavoro molto sacrificato e disagiato soprattutto quando le bestie non erano di loro proprietà e dovevano svolgere questo lavoro alle dipendenze di alcune ricche famiglie di Frosolone proprietarie di numerosissimi capi di bestiame.

Questi guardiani, solo durante l’estate in cui le greggi pascolavano sulla montagna di Frosolone, la sera, a turno, dopo aver accudito le bestie, potevano scendere giù per trascorrere la notte nelle proprie case. L’indomani mattina all’alba dovevano poi riprendere la strada del ritorno. Si racconta che nel periodo invernale, in cui gli uomini stavano in Puglia, le mogli, consapevoli delle enormi difficoltà e dei disagi a cui andavano incontro i propri mariti, non osassero nemmeno dormire nei propri letti ma, addirittura, trascorrevano la notte sulla cassa (la cassapanca che conteneva il corredo).

I proverbi sono considerati, a ragione, la saggezza di un popolo e se consideriamo la varietà, il numero e la bellezza dei proverbi frosolonesi, dobbiamo proprio ammettere che si tratta di un popolo saggio o, quanto meno, avveduto e giudizioso ma forse un tantino pessimista almeno a giudicare dai seguenti detti:

- quann l’amic t vè a truvuà è segn ca vò la crdenza, può ze scorda e ng penza quann ce la vià pà recercà se mett a astmà e astema accuscì spiss com se tu c l’avissa dà a iss. (quando l’amico ti viene a trovare è segno che vuole un prestito, poi se lo dimentica e non telo restituisce e quando glielo richiedi si mette ad imprecare e impreca con tanta veemenza come se tu dovessi qualcosa a lui);

- marit, serp d’ cannit la nott t’abbraccia e lu iuorn t sptaccia (marito serpente di canneto, la notte ti abbraccia e il giorno ti percuote fino a farti a pezzi);

- figli e nput chiù ce ne fià e chiù è perdut (a figli e nipoti tutto quello che gli dai è perduto);

- Amic fatt amic piers (nel momento in cui fai del bene all’amico hai già perso la sua amicizia);

- Cient amic nun t’abbiastn e nu nemich t’supera (cento amici non ti bastano e un nemico ti avanza);

- Fruslon ch l port tent p’fa ‘ndra l frstier caccia chill de dentr (si riferisce al fatto che a Frosolone sono considerati meglio i forestieri che i paesani, come dire "nemo profeta in patria";

- Fruslon, lu paes de lu scunfuort o chiove, o sciocca, o mena vient o sona a muort (Frosolone è il paese dello sconforto o piove o nevica o tira il vento o suonano le campane a morto. Evidentemente si riferisce al clima rigido ed al vento che soffia costantemente, infatti, grazie ad alcune ricerche anemologiche effettuate dall’Enel, si è scoperto che Frosolone è uno dei paesi più ventosi d’Italia;

- Meglio a fatià addò chi nt paga ch’arraggiunà ch chi n’arraggiona (meglio lavorare da chi non ti paga che ragionare con chi non vuole ragionare;

- Chi sta n’coppa cummanna e chi sta sott sze danna (il padrone comanda e chi sta sotto si danna);

- S sci martiell puà daglie, s sci ‘ncudine ià rcev (se sei martello puoi colpire, se sei incudine devi solo subire);

- Meglio a murì che male campà (megli morire che vivere male);

- Nz chiagn l’ann viecch, s n ientra quill nuov (non si piange l’anno vecchio se non entra quello nuovo. Come dire che le cose vanno di male in peggio);

- Dio dà le pane a chi ntè dient e le dient a chi ntè l pane (Dio dà il pane a chi non ha denti ed i denti ha chi non ha il pane. Ciò equivale a dire che l’uomo è sempre in uno stato di sofferenza, qualunque sia la sua posizione e la sua età).